- Le Tavole Iuguvine sono sette tavole di bronzo conservate nel Palazzo dei Consoli di Gubbio
- Giacomo Devoto ha definito le Tavole di Gubbio come il piú importante testo rituale di tutta l’antichità classica
- Nel 1456 il Comune di Gubbio pagò 40 fiorini d’oro per acquistare le tavole dalla contadina di nome Presentina che le scoprì 12 anni prima
- Dalle lastre di bronzo si ricavano 11 testi che parlano di 9 argomenti. Per 7 facciate e mezza la grafia è etrusca, seppure adattata e per 4 facce e mezza è in grafia latina.
Le sette Tavole
Sette lastre di bronzo. Rettangolari. Diverse per peso e misure. Esposte una accanto all’altra, in una sala del trecentesco Palazzo dei Consoli: sono le Tavole Eugubine, trovate per caso, secondo la tradizione, nel 1444 da una contadina, in un terreno adibito a pascolo delle pecore, nei pressi del Teatro Romano di Gubbio.
Un passo dell’atto notarile, stilato nel 1456 al momento del loro acquisto da parte del Comune, descrive bene lo stupore che ancora oggi si prova di fronte agli antichi segni che corrono sul bronzo: «Variis literis scriptas latinis et segretis». «Lettere diverse, sia latine che misteriose».
Il senso delle 4365 parole incise sul metallo rimase infatti impenetrabile per almeno quattro secoli. Solo con l’aiuto della nascente glottologia, in pieno Ottocento, si cominciò a capire che quei segni enigmatici, frutto di due differenti scuole di scrittura e quindi di due diversi alfabeti, prima etrusco e poi latino, erano in realtà espressione di uno stesso, arcaico idioma indoeuropeo, oggi catalogato dai linguisti come «umbro-safino».
Il linguista e archeologo Giacomo Devoto (1897-1974) ha definito le Tavole di Gubbio come «il piú importante testo rituale di tutta l’antichità classica». Secondo il Dizionario d’antichità classica di Oxford (vol. III, 1953), «per la loro ampiezza e antichità, superano in importanza tutti gli altri documenti disponibili per lo studio delle antiche religioni italiche».
Norme, preghiere, invocazioni
Dalle lastre di bronzo riemergono 11 testi. Ma i temi trattati sono 9: due argomenti sono infatti ripetuti in una stesura doppia, sia breve che lunga. Le antiche parole scorrono per 7 facciate e mezza in una grafia etrusca, seppure adattata e per 4 facce e mezza in grafia latina. Piú di un centinaio di vocaboli, tutti sulla stessa tematica, si ripresentano nelle due diverse scritture. Questa singolare circostanza ha permesso che la conoscenza dei valori alfabetici latini servisse come chiave per comprendere i segni etruschi nelle parole uguali o anche in quelli simili. Sullo studio dei testi eugubini, che certamente non sono etruschi, si è quindi a lungo fondata la faticosa decifrazione della scrittura degli abitanti dell’antica Etruria.
Le Tavole Eugubine più antiche risalgono al III secolo a.C. e le più recenti al I secolo a.C. I testi, però, vennero composti centinaia di anni prima. Furono gli Umbri, contemporanei dei Romani, a fermare sul bronzo norme, preghiere e invocazioni che nei secoli precedenti erano state trascritte dai loro padri su pelli, tele, legni e altri materiali deperibili. Al momento dell’ultima trascrizione, il testo tradizionale venne aggiornato con le unità di misura e monetarie romane, alcune indicazioni topografiche e l’indicazione di nuove cariche pubbliche.
I fori visibili sui lati provano che le Tavole dovevano essere appese per permetterne la visione, in un luogo pubblico, a tutta la comunità dell’antico popolo italico: con ogni probabilità, venivano esposte nell’androne del Teatro Romano, nei pressi del quale furono poi ritrovate. Sui particolari della scoperta le cronache sono discordanti. Nel primo studio documentato sull’argomento (1580), l’erudito eugubino Gabriele Gabrielli fissò la data del ritrovamento al 1444. È comunque certo che dodici anni più tardi le Tavole diventarono proprietà del Comune di Gubbio, come riporta un atto notarile, redatto in latino e sottoscritto dal cancelliere comunale Guerriero Campioni.
La nascita del “bene culturale”
Per le sette Tavole, il Comune pagò a Presentina, la contadina che scoprì le Tavole, e alla sua famiglia, 40 fiorini d’oro, equivalente alla cessione per due anni dei proventi dei pascoli dei monti intorno alla città. Il documento venne registrato sui libri delle Riformanze di Gubbio. Fu la prima azione mirata alla conservazione di un bene archeologico di cui si abbia notizia storica. Quella data, 25 agosto 1456, di fatto certifica la nascita dell’archeologia intesa come preservazione e studio di documenti del passato insieme alla pratica della “conservazione dei beni culturali”. Un reperto storico che oggi definiamo «testimonianza avente valore di civiltà» (Codice dei beni culturali e del paesaggio) venne acquistato da un ente pubblico e da allora venne considerato non più come patrimonio di un privato ma di tutta la comunità dei cittadini.
Nessun documento lo conferma. Ma di certo, un acquisto del genere, costoso e anche dal grande valore simbolico, non poteva essere stato deciso senza il consenso e la regia di Federico da Montefeltro, che a Gubbio era nato e che era salito al potere proprio nell’anno dello straordinario ritrovamento.
Colpisce la descrizione che delle Tavole Eugubine fece il cancelliere comunale ser Guerriero Campioni, il notaio di fiducia del duca Federico: nell’atto di compravendita per ben due volte, scrisse eburneas, anziché aheneas. Alludendo dunque a tavole bianche, come «l’avorio» e non «di bronzo». Un lapsus dotto, se il notaio di Federico in quel momento pensava alle famose dodici tavole delle leggi romane che si dice fossero state incise su tavolette d’avorio. O forse, più semplicemente, un errore, dovuto al farraginoso latinorum di un burocrate del XV secolo.
Fatto sta che il Comune di Gubbio conservò le preziose lastre di bronzo lontane da occhi indiscreti fin quasi agli inizi del Novecento. Lo studio delle epigrafi iniziò però già a metà del XVI secolo. Per provare a decifrare quelle lettere, si cominciò innanzitutto a copiarle manualmente, come fece il domenicano bolognese Leandro Alberti.
Intorno alla studio delle Tavole si arrovellò soprattutto il conte eugubino Gabriele Gabrielli, vissuto nella seconda metà del Cinquecento, l’unica fonte ad oggi ad indicare il 1444 come data di rinvenimento. L’erudito riprodusse le Tavole a stampa, con il metodo dell’acquaforte e ne inviò 300 esemplari, corredati di una breve introduzione e da un commento, «ai dotti» d’Italia e di altre nazioni europee. Ma anche in Egitto e Turchia. La sua speranza era quella che qualcuno, finalmente, ne decifrasse il significato. Nel 1613, un altro eugubino, il conte Giovan Battista Cantalmaggi, perseguì lo stesso obiettivo riproducendo con pazienza quei segni impressi sul bronzo.
A parlare per la prima volta di un documento di chiara origine soltanto umbra fu Curzio Inghirami (1614-1655), un discusso archeologo volterrano. Ma aveva fama di falsario e la sua tesi venne perciò quasi del tutto ignorata. L’intuizione fu ripresa, con esito diverso, nel 1726 da un altro studioso toscano, Filippo Buonarroti che pubblicò per la prima volta in Italia il De Etruria Regali, un trattato in sette libri scritto più di cento anni prima a Pisa dallo storico scozzese Thomas Dempster. Nell’opera, commissionata allo studioso britannico da Cosimo II de Medici, erano elencate tutte le iscrizioni etrusche fino ad allora conosciute. Buonarroti aggiunse alla lista anche le Tavole Eugubine. Ma si premunì di sottolineare una chiara evidenza: nei testi delle Tavole non comparivano mai nomi con la terminazione «al», tipica dell’idioma degli Etruschi. La lingua riportata sul bronzo doveva quindi essere diversa. Ma Buonarroti, fondatore e primo “lucumone” dell’Accademia etrusca di Cortona, con la prudenza dello storico, si limitò a definire le sue puntuali osservazioni all’opera di Dempster «explicationes et coniecturae».
Un unicum nella storia occidentale
Più tardi, anche Scipione Maffei (1675- 1755) – un erudito veronese che Giacomo Leopardi considerava «uomo nato nobile nella critica libera, franca, spregiudicata e originale» – volle vedere di persona quelle opere misteriose. E si convinse definitivamente del fatto che la lingua fermata sui bronzi non poteva essere etrusca. Un’altra, autorevole conferma, arrivò nel 1734 dagli studi del linguista e filosofo svizzero Louis Bourguet. Delle Tavole scrisse anche Anton Francesco Gori (1691-1757), nel suo Museum Etruscum, e un altro studioso settecentesco, l’alto prelato Giovan Battista Passeri, notò per primo che le prime Tavole e le ultime due trattavano di argomenti simili. Il valore fonetico dei segni venne analizzato anche dal gesuita Luigi Lanzi nel 1789.
Ma fu l’archeologo tedesco Karl Richard Lepsius (1810- 1884) ad affrontare per la prima volta lo studio dei testi di Gubbio su basi scientifiche. Lepsius dedicò alle Tavole Eugubine la sua tesi di dottorato, nel 1833. E assegnò loro una numerazione, composta da una faccia anteriore A e una posteriore B. L’opera De tabulis eugubinis fu pubblicata dall’ateneo di Berlino ed ebbe grande risonanza nell’ambiente accademico. La consacrazione scientifica giunse però solo cento anni più tardi, grazie a Giacomo Devoto, il massimo glottologo italiano del Novecento che ai bronzi dedicò un’opera fondamentale, Tabulae iguvinae (1937), nella quale scrisse: «Non possediamo nulla di simile né in lingua latina né greca: per trovare paralleli, bisogna ricorrere a letterature del vicino o lontano Oriente». C’era insomma una storia da riscrivere, ma che era già incisa sul bronzo.
L’impresa della traduzione coinvolse i maggiori glottologi italiani, dall’indianista Vittore Pisani (1899-1990) ad Aldo Prosdocimi (1941-2016), il quale, nel 1984, pubblicò il testo con la conseguente descrizione paleografica. Le Tavole furono indagate con passione anche da Piero Luigi Menichetti (1923- 1998), appassionato studioso della storia di Gubbio. Il secolare percorso della traduzione fu completato dal glottologo Augusto Ancillotti, autore, con Romolo Cerri, de Le tavole di Gubbio e la civiltà degli umbri (Edizioni Jama, Perugia 1996).
Umbro, quindi fidato
Gli storici greci testimoniano che il nome Umbri, fosse usato in riferimento agli abitanti di una vastissima zona tra il Po e il Tevere. Ben più grande quindi dell’Umbria attuale. Poco chiara, ancora oggi, è l’origine del nome. Gli antichi lo legavano al greco ombros, «pioggia» riferito all’antichissimo popolo scampato al mitologico al “diluvio universale”. Per i glottologi l’origine è meno favolosa: si tratta con ogni probabilità dello sviluppo di un aggettivo indeuropeo *omro- che significava «solido, pertinace», e quindi, in senso morale veniva associato a chi è «fidato» ed era capace di rispettare la parola data. L’indicazione ombriìen akren (“nell’agro Umbro”) è trascritta in una arcaica iscrizione picena. In un’altra epigrafe del VI secolo avanti Cristo, rinvenuta in territorio etrusco, appare l’orgogliosa firma di un tale Ombrikos. Ma la parola non compare mai nelle Tavole di Gubbio. Nelle Tavole di Gubbio però non c’è traccia di questo termine. Del resto quelli che noi ricordiamo come Antichi Umbri, quando parlavano di se stessi si definivano Safini o Savni. E parlavano dal Po fino all’attuale Lucania la stessa lingua indoeuropea, declinata in cento dialetti diversi: Safini (o Savni), Sabini, Sanniti.
Solo quattro vocali
Le Tavole Eugubine vennero fuse nel bronzo con il metodo della “cera persa”. Contengono 750 parole umbre. In realtà i termini citati sono ben 4365. Ma molte parole si ripetono e spesso, con voci simili, si indicano le medesime cose. L’antico alfabeto è composto da 18 lettere: 14 consonanti e 4 vocali (manca la O). Solo le Tavole III e IV non presentano scritte su entrambe i lati, ma le differenze non si fermano qui. Le Tavole I e II hanno le stesse dimensioni; la III e la IV sono più piccole delle prime due; la V è di grandezza media, mentre le ultime due sono più grandi delle altre. Le prime quattro Tavole e anche una parte della V, sono redatte da destra a sinistra. La parte restante della V tavola e le ultime due si leggono invece da sinistra a destra. Le lastre di bronzo elencano prescrizioni rituali destinate alla Confraternita Atiedia, un collegio di cittadini eccellenti della comunità iguvina che aveva il compito di officiare i culti collettivi. Chiamati così in ricordo di Atiedio, città madre nell’alta valle dell’Esino, oggi Attiggio, frazione del comune di Fabriano, di cui Iguvium era figlia o colonia.
Parlare con gli dei
Parlare con gli dèi a nome di tutta la comunità era considerato un privilegio riservato a pochi, nobili eletti. Ma era importante celebrare la cerimonia in modo corretto, secondo procedure rigorose e immutabili, attraverso un «breviario» che andava conservato e trasmesso di generazione in generazione. Occorreva evitare che chi officiava i riti potesse modificare i modi e i tempi di una liturgia considerata perfetta e vista dagli antichi abitanti dell’Appennino come il solo strumento capace di assicurare la benevolenza divina, la salute delle persone e del bestiame, nonché l’agognata prosperità dei campi. Tramandare il «breviario» attraverso il quale si celebravano i riti comunitari di Iguvium e delle città alleate era il primo e il piú importante dei doveri.
Venti città alleate
Così attraverso le regole del rito, possiamo ricostruire la società degli antichi Umbri. La comunità cittadina, organizzata in senso politico e amministrativo, veniva chiamata tota.
Nella Tavola II e nella Tavola V sono riportate le istruzioni per il corretto svolgimento rituale del patto della decade, termine con cui si indicava una confederazione tradizionale di dieci comunità, strette in un patto lungo un territorio appenninico che da Iguvium arrivava al Mare Adriatico. Le città-stato alleate, con il tempo, diventarono venti, pur mantenendo i dieci nomi sacri originali: tiieriate, klaverniie, kureiate, satanes, peieriate, talenate, museiate, iuieskane, kaselate e peraznanie.
La Tavola V è peraltro un documento eccezionale che apre uno squarcio incredibilmente moderno su una società di quasi tremila anni fa: la confraternita era gestita in modo collegiale, su base maggioritaria. L’esecuzione impeccabile degli atti e la gestione delle parole cerimoniali erano compiti specifici di un officiante. Ma il prescelto non era un autocrate. Anzi, sottoponeva ogni suo atto al gradimento dei confratelli, che, a seconda del suo operato, potevano premiarlo o multarlo.
Anche nel rapporto con gli dèi valevano le stesse regole della società degli uomini: al primo posto c’era la lealtà e il rispetto dell’impegno assunto. La parola data era talmente importante che venne addirittura divinizzata: Fisone Sancio era il dio che riconosceva un patto come valido e quindi «sanciva» ogni decisione fino a sacralizzarla, conferendo ufficialità e chiarezza agli accordi presi. Un garante dei patti su cui si fondava la comunità, ma anche delle molte regole che le città confederate degli Antichi Umbri dovevano rispettare.
La guerra come difesa
I nove testi diversi raccolti nelle sette Tavole sono quindi un manuale del giusto rapporto da assumere quando ci si rivolge alla divinità. Per esempio, raccontano in modo minuzioso il corretto svolgimento delle cerimonie di purificazione sia sul terreno religioso (piacula) che su quello militare (lustratio). Oppure elencano le prescrizioni del rito «per auspici avversi». Arrivano a descrivere, nei dettagli, il sacrificio rituale di un cane. E regolano la corretta cerimonia di cinque speciali giornate dell’anno, dette Sestentasie, che servivano a propiziare il raccolto secondo le tradizioni dell’antico mondo agropastorale. Le parole scritte sul bronzo illustrano i diritti e i doveri degli officianti e chiariscono le regole tributarie e commerciali da rispettare nei rapporti fra le città confederate.
Di particolare interesse, per più motivi, appare la descrizione che le Tavole Eugubine fanno della lustratio, una cerimonia di purificazione dei cittadini in armi. Le azioni militari portavano morte e distruzioni e quindi rovesciavano l’ordine naturale delle cose. Così l’adunata in uno spazio pubblico si ripeteva in modo periodico. Dalle parole trascritte sulle Tavole di Gubbio scopriamo un popolo che impugna le armi solo quando è costretto. E che vede la guerra, in modo pressoché esclusivo, soltanto come uno strumento di difesa. L’abito del soldato andava indossato come un dovere verso gli altri, per difendere il bene comune del territorio minacciato dai nemici. Ma la guerra è comunque un male, da tenere lontano dalle proprie case e dalla vita di tutti i giorni.
Il mestiere delle armi, in ogni caso, era di esclusiva competenza delle élites cittadine. La lustratio, una delle piú arcaiche forme di censimento conosciute, diventava così anche un modo per contarsi, per capire chi era in condizione di combattere. L’elenco dei potenziali guerrieri da coinvolgere in una guerra escludeva gli stranieri. La circostanza, paradossalmente, fa riflettere sullo spirito tollerante dell’antico popolo italico verso chi non era nato nella comunità di Iguvium: la circostanza che il divieto venga ripetuto piú volte, ci informa sul fatto che nella città degli Umbri risiedevano molti stranieri e che la loro presenza, se si eccettua il momento della battaglia, era considerata del tutto normale. L’esclusione dalla cerimonia militare non era quindi dettata da ostilità, ma dalla necessità di rimarcare l’identità cittadina.
La giusta misura
Nella vita di ogni giorno gli antichi Umbri cercavano di continuo il mers, la parola che definisce la «giusta misura». Un buon senso da inseguire anche nella vita di tutti i giorni e che emerge anche nel testo della Tavola VII, soprattutto nel passo della imprecatio, la preghiera rivolta alla divinità di Torsa Giovia per ottenere la sconfitta dei nemici. Gli abitanti di Iguvium descrivono se stessi come vittime di continue scorrerie da parte di bellicosi vicini e le condannano con forza. Tuttavia, sanno che non è possibile eliminarle del tutto dalla loro vita. In qualche modo devono convivere con la disgrazia di essere quasi sempre sotto la pressione di un attacco. Allora pregano la dea in modo collettivo, chiedendole di terrorizzare i nemici, perché almeno si spostino e ripieghino in altre zone. La già citata confederazione Atiedia, che raggruppava venti città alleate, al di là del Tevere confinava con Perugia e gli altri centri controllati dagli Etruschi; a oriente, verso il mare, c’era il costante pericolo degli Iapodi, i pirati illirici che infestavano le coste adriatiche; a sud, vivevano altre genti umbre: i Tadinati, insediati nell’area dell’attuale Gualdo Tadino, e i Naharchi, che abitavano lungo le sponde del fiume Nera nei pressi del luogo dove poi nacque Interamna Nahars, la Terni latina.
Una visione tripartita
Nel racconto ormai decifrato delle Tavole, la cultura paleoumbra dell’età del Bronzo e quella safina o savina dell’età del Ferro sono mescolate. Nella prima c’è una visione più antica del divino, che appare misterioso e duale: uranio e ctonio, celeste e allo stesso tempo interno al terreno. La seconda, come scrive il glottologo Augusto Ancillotti, è invece «portatrice di una visione tripartita, che vede il divino, come l’umano, articolato secondo il potere della parola magica e creatrice, potere della forza materiale e potere della vitalità e della fecondità». Il dio della riproduzione è l’umbro Vofion, la divinità del clan. La trinità è costituita quindi da Giove Grabovio, Marte Grabovio e Vofione Grabovio. Una chiara indicazione che già all’epoca in cui i testi sacri vennero trascritti sul bronzo, tutti gli dèi avevano già assunto i caratteri di Grabo, un’antichissima divinità iguvina.
Giove padre, trasposizione dell’autorità assoluta del pater familias, è il patrono del monte Fisio che domina Iguvium e della stessa Confraternita Atiedia; Mart, corrispondente del Marte latino, è l’atavico dio dei guerrieri pastori; Vofione è il dio della fertilità, che assicura la discendenza e quindi la vita futura alla città. Tre divinità che proteggono la tota. Nel rito colpisce la valenza magico-religiosa attribuita al numero: tre sono le porte maggiori, Tessenaca, Trebulana e Vehia, dalle quali si poteva accedere all’antica Iguvium; tre gli enti beneficiari delle offerte; tre anche i tempi del sacrificio. Così come ternario è il ritmo della danza rituale. E la proclamazione della fine del rito, descritta nella Tavola VI, che doveva essere ripetuta tre volte prima che la fila degli armati potesse finalmente sciogliersi.
La nascita della Cosa Pubblica
Nell’Italia preromana gli Umbri gettarono le basi della nostra civiltà. Insediamenti in forma di villaggi furono organizzati come comunità statali. All’antico popolo dobbiamo la pratica della giustizia e l’istituzione delle prime magistrature civili e religiose. Nacque allora il concetto di patria comune e il territorio iniziò a essere considerato un bene collettivo da difendere. Gli Umbri fissarono per primi alcune norme che sono ancora fondamentali per le società contemporanee. Come il rispetto del principio della separazione della proprietà privata, governata dalla famiglia patriarcale e la «cosa pubblica», patrimonio di tutta la comunità.
La confederazione (deku), delle venti città all’interno di una unità territoriale molto più ampia del proprio paese, serviva a dare spazio ai commerci e agli spostamenti stagionali di quel popolo di pastori. Facilitava la costruzione di nuove strade e regolava la transumanza del bestiame, lungo i tratturi che si intrecciavano tra le valli. Quasi tremila anni fa, sui monti dell’Appennino accadeva quindi, in una forma certamente molto diversa, qualcosa di simile a quello che succede oggi con la libera circolazione delle persone e delle merci all’interno dell’Unione Europea.
Nacquero allora tutta una serie di figure capaci di ordinare la vita pubblica, dal magistrato in capo (uhtur), al suo collega che curava le opere pubbliche (maron). Fino al giudice (meddix) e all’arbiter, il magistrato “equidistante” a cui era demandato il compito di risolvere le controversie.
L’enorme contributo degli Antichi Umbri, il più antico dei popoli italici, attraverso i “nipoti” Sabini alla nascita di Roma, è testimoniato dalle eccezionali simmetrie che si riscontrano nell’organizzazione politica e sociale dei due popoli. A partire dai rituali della fondazione dell’Urbe descritti nella leggenda di Romolo e Remo fino alla religione, all’ideologia sociale e alle radici più profonde del diritto romano. I nomi degli antichi re sabini di Roma sono il simbolo stesso di uno straordinario patrimonio religioso e morale. Da Tito Tazio che regnò per cinque anni insieme a Romolo al grande Numa Pompilio, “padre” riconosciuto della città che nei secoli verrà ricordata come caput mundi.
Un’eredità di parole
Le Tavole Eugubine parlano ancora. Ci ricordano il debito culturale che ci lega al più antico fra tutti i popoli italici. Trascurato dalla storiografia ufficiale, eppure capace di trasportare fino ai giorni nostri un lascito eccezionale, lontano dalle meraviglie dell’arte etrusca o dalle grandiose opere dei Romani e a lungo misconosciuto, ma comunque ancora integro, a distanza di trenta secoli.
Una eredità preziosa, fatta di parole. Quelle che ancora usiamo nella vita di tutti i giorni. E che dalla oscura lingua dei bronzi eugubini sono passate al latino e poi all’italiano. Parole della viabilità – come via o calle –; della teologia o del culto – come Cerere, pontifex oppure pius –; dell’ideologia sociale (vir, familia, curia); della terminologia giuridica (arbiter, auctoritas, stipula). Oppure dell’organizzazione militare: centuria, fundere, hastatus, cinctus.
Suoni vivi e familiari: casa, tetto, vino, cibo, popolo, soglia, vaso, carne, picchio, capro o vitello. Verbi come curare, tacere, portare oppure sancire. E aggettivi che evocano la forza del bronzo: saldo, salvo, scritto, sacro… Radici profonde e intrecci di parole che ci legano per sempre ai segni, a lungo misteriosi, delle Tavole di Gubbio.